1. La Corte di appello di Milano, con sentenza pubblicata il 23/10/2018, ha rigettato il reclamo proposto dalla Fiamma s.p.a. ed ha confermato, seppur con diversa motivazione, la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio resa in sede di opposizione (rito "Fornero", L. n. 92 del 2012) con la quale, fermo l'annullamento del licenziamento intimato per giusta causa dalla società a D.M. e la disposta reintegrazione della lavoratrice, era rideterminata l'indennità risarcitoria in sette mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto con detrazione dell'aliunde perceptum.
2. La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, ha accertato che era pacifica l'esistenza di una corrispondenza sulla chat aziendale "world client" tra la D.o ed un'altra collega avente contenuto pesantemente offensivo nei confronti di una superiore gerarchica e di qualche altra collega. Ha poi ricordato che di tali conversazioni la società aveva appreso l'esistenza ed il contenuto in esito ad un controllo effettuato dal personale IT (tecnico informatico) che doveva verificare - in occasione della chiusura della chat e del conseguente progressivo suo abbandono - se vi fossero dati aziendali da conservare. La Corte milanese accertava che la chat era stata introdotta anni prima dell'assegnazione a ciascun dipendente di un indirizzo di posta elettronica e veniva utilizzata per le comunicazioni interne. Ciascun dipendente vi accedeva con una propria password personale, così come in seguito sarebbe stato fatto per la posta elettronica aziendale. Successivamente all'introduzione di quest'ultima, l'utilizzo della chat si era ridotto, tanto da indurre l'azienda a decidere di eliminarla.
2.1. I giudici di appello hanno osservato che ai sensi di quanto disposto al punto 13 del regolamento aziendale l'accesso alla chat era lecito, perché consentito in occasione di interventi di manutenzione, aggiornamento o per ricavare dati utili...
1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. 30 maggio 1970, art. 4, e successive modificazioni, e dell'art. 15 Cost., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Secondo la ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che le conversazioni offensive intrattenute nella chat aziendale non potessero essere utilizzate a fini disciplinari. Non si era trattato di controlli finalizzati all'adempimento della prestazione lavorativa né, inizialmente, di controlli difensivi. L'accesso era stato occasionato dalla scelta organizzativa di eliminare la chat e dalla necessità di conservare dati aziendali ivi presenti. Le frasi offensive e sconvenienti ivi rinvenute erano state inviate utilizzando il pc in dotazione di proprietà dell'azienda durante l'orario di lavoro e attraverso la chat aziendale da usare esclusivamente per le comunicazioni di servizio. Sostiene la ricorrente che ad una fattispecie come quella in esame non trovi applicazione l'art. 15 Cost., che tutela la corrispondenza e le forme di comunicazione private (la ricorrente cita Cass. 26682 del 10/11/2017) e che si verta piuttosto nell'ambito di un controllo difensivo a tutela dell'immagine del datore di lavoro. L'emersione è stata del tutto casuale e legittimo l'utilizzazione delle informazioni rinvenute a fini disciplinari. Non vi sarebbe stato alcun controllo diretto sull'attività lavorativa e la condotta della lavoratrice sarebbe contraria al minimo etico ed al buon vivere civile. Secondo la ricorrente, quindi, sarebbero stati legittimi l'esercizio del potere disciplinare ed il licenziamento, per cui l'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, da applicarsi, ratione temporis, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 1, sarebbe stato male applicato.
2. Con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., e dell'art. 18...
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