1. La Corte di appello di Milano, respingendo gli appelli di V.M.G. e di Capgemini Italia s.p.a., ha confermato la sentenza di primo grado che, accertata la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro stipulato tra le parti, aveva dichiarato la estinzione del rapporto di lavoro per effetto del recesso datoriale motivato con il mancato superamento del periodo di prova e condannato la società datrice di lavoro a corrispondere alla lavoratrice, ai sensi del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma, 1, un'indennità corrispondente a quattro mensilità della retribuzione, quantificata in complessivi Euro 8.333,32, oltre accessori, dalla data del recesso al saldo.
2. La Corte distrettuale ha condiviso la valutazione di prime cure in punto di nullità del patto di prova per mancata specificazione delle concrete mansioni alle quali sarebbe stata adibita la lavoratrice e per mancata indicazione del profilo professionale attribuito; ha escluso la esistenza di un motivo illecito determinante il licenziamento; ha ritenuto che le conseguenze dell'illegittimo recesso datoriale intimato sulla base di un patto di prova nullo non fossero riconducibili alla fattispecie regolata D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, implicante l'applicazione della tutela reale, ma regolate dell'art. 3, comma 1 D.Lgs. cit., con applicazione, quindi, della sola tutela cd. indennitaria, in concreto determinata in quattro mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso V.M.G. sulla base di quattro motivi. Capgemini Italia s.p.a. ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato con memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
4. Il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 2, o, in subordine, dell'art. 1418 c.c.. Sostiene che in carenza di un valido ed efficace patto di prova il licenziamento intimato per mancato superamento della stessa è nullo, ai sensi dell'art. 1418 c.c., per contrasto con la L. n. 604 del 1966, art. 1, norma imperativa posta a tutela di interessi rilevanti ai sensi degli artt. 1,4,35,36 Cost., art. 41 Cost., comma 2; rimarca la "totale carenza" di potere in capo alla parte recedente per essere il licenziamento stato intimato al di fuori delle causali tipizzate dalla legge, collocandosi, quindi, all'esterno del perimetro nell'ambito del quale l'ordinamento, con disposizione di natura imperativa (art. 1 cit.), consente l'esplicazione del potere datoriale di recesso; osserva che sul piano delle tutele applicabili, la configurazione come nullo del recesso datoriale comportava l'applicazione della tutela reintegratoria piena D.Lgs. n. 23 del 2015, ex art. 2, comma 1, o, in subordine, della tutela di diritto comune - ripristino del rapporto e risarcimento del danno; contesta la applicabilità della sola tutela indennitaria ai sensi dell'art. 3 D.Lgs. cit. sul rilievo che il licenziamento in oggetto non era ingiustificato ma illecito per assenza di causale; evidenzia che a fronte dell'allegazione datoriale del diritto di recedere ad nutum ai sensi dell'art. 2096 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 10, la verifica giudiziale non potrebbe investire il diverso profilo della fondatezza del recesso per il principio di immodificabilità della motivazione del licenziamento e della tipizzazione delle cause di recesso.
1.1. Prospetta la questione di legittimità costituzionale, per eccesso di delega, ove la tutela ex art. 2 comma 1, D.Lgs. cit., dovesse ritenersi preclusa dalla necessità di previsione espressa della nullità dell'atto di recesso.
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