Il caso
Con ricorso per Cassazione un lavoratore impugnava la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Cagliari con la quale il giudice di secondo grado, in accoglimento del gravame proposto dalla società datrice di lavoro, dichiarava legittimo il licenziamento intimato al primo per essersi rivolto con linguaggio ingiurioso ad un proprio superiore gerarchico alla presenza di un dipendente, di altri colleghi e di due ospiti esterni con consegnate violazione dei doveri di diligenza buona fede e correttezza di cui all'art. 2105, c.c.
A sostegno della propria conclusione rilevava il giudice di seconde cure come il linguaggio usato dal lavoratore fosse indubbiamente sostenuto dall'elemento volitivo nonché il fatto per cui tale comportamento costituiva oltre che gravissima insubordinazione anche una condotta contraria alle norme di comune etica e pertanto idonea a giustificare il recesso per giusta causa.
Da parte sua sosteneva il lavoratore invece la tesi per cui la sussistenza del fatto contestato doveva essere verificata esclusivamente in relazione alla riconducibilità dello stesso alla fattispecie tipica della giusta causa del licenziamento nonché il principio per cui la completa irrilevanza giuridica del fatto contestato ne comporta inevitabilmente la insussistenza materiale con diritto alla reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge Fornero, applicabile ratione temporis.
La questione
La problematica giuridica principale sottesa al caso di specie attiene al rapporto tra diritto di critica esercitato legittimamente dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro e la violazione dei doveri di cui all'art. 2105, c.c, ovvero di diligenza correttezza e buona fede, con conseguente irrogazione del licenziamento per giusta causa, laddove...
Caricamento in corso...
Caricamento in corso...