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Estremi:
Cassazione penale, 2017,
  • Fatto

    OSSERVA

    Con sentenza del 12/06/2013, il Tribunale di Lucca dichiarò C.D. responsabile del reato di truffa aggravata (capo A) e la s.a.s. DA.KA responsabile dell'illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 5 e 24 (il C. quale amministratore della predetta società commetteva il reato di cui al capo A nell'interesse e a vantaggio stessa società) e li condannò il primo alla pena di anni 1 di reclusione ed Euro 500,00 di multa e la seconda alla sanzione pecuniaria di n. 50 azioni.

    Avverso tale pronunzia l'imputato e la s.a.s. DA.KA proposero gravame. La Corte d'appello di Firenze, con sentenza del 18/12/2015, in parziale riforma della sentenza emessa il 12/06/2013, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, ridusse la pena a mesi 6 di reclusione ed Euro 100,00 di multa. Confermò nel resto l'impugnata sentenza.

    Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato e della società DA.KA eccependo: carenza motivazionale in ordine alla ritenuta penale responsabilità; riconducibilità del fatto al reato di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 37; manifesta illogicità della motivazione per quanto riguarda la ritenuta insussistenza della causa di non punibilità del reato di cui all'art. 131 bis c.p.; prescrizione del reato.

    Il difensore dell'imputato e della società DA.KA conclude, pertanto, per l'annullamento dell'impugnata sentenza.

  • Diritto

    MOTIVI DELLA DECISIONE

    1. I ricorsi sono infondati, sotto il profilo giuridico, e le censure, per altri aspetti, sono dirette a proporre una ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella con rigore descritta ed elaborata dal giudice di merito, sebbene a essi debba essere riconosciuta una diversa qualificazione giuridica.

    1.1. Infatti, entrambi i giudici di merito hanno correttamente valutato le prove acquisite ed hanno fornito una motivazione incensurabile, in questa sede di legittimità, sul perchè l'imputato fosse consapevole di non aver corrisposto alla sua dipendente l'indennità di maternità e avesse consapevolmente creato il presupposto di esporre falsamente all'INPS di avere, invece, corrisposto la predetta indennità di maternità. L'imputato otteneva, così, il conguaglio di tali somme - non corrisposte - con quelle da lui dovute per contributi.

    2. Tanto premesso si deve rilevare che - come già detto - i fatti devono essere diversamente qualificati. Invero, questa Suprema Corte ha più volte affermato che integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter c.p., e non quelli di truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione ex D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-quater, la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall'I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni (in motivazione, la S.C. ha precisato che queste ultime possono consistere anche nell'esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, non essendo necessario l'ottenimento di una somma di denaro.

    Inoltre in motivazione si richiama anche la sentenza Sez. 2, Sentenza...

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