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Estremi:
Cassazione civile, 2017,
  • Fatto

    FATTI DI CAUSA

    1. la Corte d'Appello di Roma, con la sentenza n. 7574 del 2014, in accoglimento dell'appello proposto da P.E. nei confronti della società VA.I.LA. srl, in relazione alla sentenza emessa dal Tribunale di Roma tra le parti n. 7679 del 2012, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice con atto del 27 agosto 2010, con condanna della società datrice di lavoro al pagamento a titolo di risarcimento del danno, di una indennità commisurata alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino al 23 marzo 2011, data di comunicazione all'appellata dell'esercizio del diritto di opzione da parte della P., con rivalutazione monetaria dalla data di maturazione dei singoli crediti e gli interessi legali sulle somme via via rivalutate, e condanna a titolo di indennità sostitutiva della reintegrazione, alla corresponsione di 15 mensilità di retribuzione globale di fatto, con rivalutazione monetaria e gli interessi dal 23 marzo 2011.

    2. La Corte d'Appello premetteva che era pacifico tra le parti che la lavoratrice rimasta assente dal servizio per malattia per alcuni mesi e fino al 7 agosto 2010, era rimasta ancora assente dal lavoro dall'8 al 27 agosto 2010, data quest'ultima in cui la datrice di lavoro le inviava comunicazione di aver preso atto delle sue dimissioni "non essendosi presentata al lavoro successivamente all'8 c.m. fine della malattia come da ultimo certificato medico fattoci pervenire e non avendo ulteriormente giustificato l'assenza".

    Riteneva, quindi che nella fattispecie non poteva trovare applicazione l'istituto delle dimissioni tacite dal rapporto, applicato seppure non nominato dal giudice di primo grado, cui faceva implicito riferimento la datrice di lavoro nella lettera del 27 agosto 2010.

    In tal senso assumeva rilievo la mail che la lavoratrice aveva inviato alla società il 5 agosto 2010 quando era ancora in malattia, in...

  • Diritto

    RAGIONI DELLA DECISIONE

    1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione di legge in relazione all'art. 435 c.p.c., comma 2, (art. 360 c.p.c., n. 3) in ragione della improcedibilità dell'atto di appello, atteso che la P. aveva violato il termine di gg. 10 per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza previsto dalla norma suddetta.

    1.1. Il motivo non è fondato. Secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte (ex multis, Cass., n. 5549 del 2017), nel rito del lavoro il termine di dieci giorni entro il quale l'appellante, ai sensi dell'art. 435 c.p.c., comma 2, deve notificare all'appellato il ricorso, tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l'impugnazione, e il decreto di fissazione dell'udienza di discussione non ha carattere perentorio; la sua inosservanza non produce quindi alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perchè non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell'appellato, sempre che sia rispettato il termine che ai sensi del medesimo art. 435 c.p.c., commi 3 e 4, deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell'udienza di discussione.

    Nessuna invalidità è derivata dall'inosservanza del termine suddetto, nè è stata dedotta la violazione dei termini minimi di comparizione; tanto è sufficiente a far ritenere correttamente introdotto il giudizio di gravame e costituto il relativo contraddittorio.

    2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell'art. 434 c.p.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 4.

    La Corte d'appello aveva omesso di rilevare la violazione da parte dell'appellante, nella redazione dell'atto di appello, dell'onere della specifica indicazione dei motivi come sancito dalla norma sopra richiamata, come si poteva evincere dalla letture degli stessi motivi (riportati da pag. 17 a 24 del ricorso).

    2.1. Il...

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