Con sentenza del 1 aprile 2014 la Corte d'appello di Milano, in riforma della decisione del Tribunale, accoglieva la domanda proposta da J.I.N. contro la datrice di lavoro s.p.a.
Tupperware Italia e così dichiarava l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato il 23 novembre 2012, ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro e condannava la società a pagare l'indennità risarcitoria, di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, nella misura di dodici mensilità dell'ultima retribuzione.
La Corte rilevava che la lettera di contestazione dell'illecito disciplinare, del 7 novembre 2011, era basata su quattro punti: 1) la doglianza, formulata dalla J. presso il superiore diretto dell'amministratore delegato della società, di generici comportamenti scorretti di quest'ultimo, definito come "paranoico" e privo di "legame con la realtà", nonchè l'imputazione allo stesso superiore di non correttezza e non rispetto dei valori aziendali e morali; 2) la mancata risposta al direttore finanziario, che la sollecitava ad esaminare la sua posizione, e la pretesa di discutere direttamente con l'amministratore delegato; 3) la segnalazione ad un dirigente della società dell'intenzione dell'amministratore delegato di passare alle dipendenze di altra società, fatto appreso mediante accesso diretto e non autorizzato alle informazioni personali del medesimo, 4) il rifiuto di restituzione del telefono portatile aziendale.
La Corte d'appello riteneva che l'addebito n. 1, riferito ad un fatto avvenuto quasi cinque mesi prima,, fosse invalido perchè contrastante col principio d'immediatezza della contestazione disciplinare.
Il fatto sub 2 non costituiva comportamento indisciplinato poichè la pretesa di parlare, ...
I due ricorsi debbono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ..
Col primo motivo la ricorrente principale lamenta la violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 e art. 2119 cod. civ., per avere la Corte d'appello considerato in modo isolato e non complessivo i comportamenti indisciplinati addebitati alla lavoratrice, unificati dalla "qualificazione vendicativa e ritorsiva", ossia da una "strategia tesa a delegittimare l'amministratore delegato per vendicarsi per ragioni personali della relazione sentimentale finita male".
La ricorrente dice di non condividere "quanto sostenuto dalla Corte d'appello circa la mancanza di disvalore della condotta tenuta dalla signora J.", la quale aveva interrotto il legame fiduciario necessario al rapporto di lavoro.
Sostanzialmente la stessa censura viene ripetuta nel secondo motivo del ricorso, con riferimento all'art. 18 L. cit., artt. 2104, 2105, 2016 e 2119 cod. civ., artt. 115 e 116 cod. proc. civ. ed alla "lealtà e fedeltà" della lavoratrice. Col terzo motivo la ricorrente principale deduce la violazione dell'art. 18 cit. e art. 2119 cit. sostenendo che solo la materiale insussistenza dei fatti addebitati, e non il difetto della giuridica rilevanza, avrebbe giustificato la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4 cit.. I tre connessi motivi non sono fondati.
E' anzitutto da osservare che la ricorrente non contesta l'affermazione - resa dalla Corte d'appello con riferimento al primo dei fatti addebitati, ossia alle risentite parole pronunciate dalla lavoratrice con riferimento al suo superiore - di illegittimità del licenziamento per contestazione tardiva dell'addebito, vale a dire per atipica perdita del potere di licenziare dovuta al trascorrere del tempo (...
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