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Estremi:
Cassazione civile, 2017,
  • Fatto

    RILEVATO IN FATTO

    Che T.G. chiese al tribunale di Venezia la condanna dell'I.n.a.i.l alla corresponsione in proprio favore della rendita ai superstiti a seguito del decesso per infortunio sul lavoro del proprio coniuge B.G. (collaboratore dell'impresa familiare di cui la T. era titolare) avvenuto a seguito di caduta da un'altezza di circa sei metri, il 19 settembre 2005, mentre lo stesso si apprestava a sistemare alcune parti di un magazzino;

    che, posto che l'I.n.a.i.l. agì in riconvenzionale in via di rivalsa ex artt. 10 e 11 del t.u. n. 1125/1965 relativamente all'esborso corrispondente all'importo della rendita, il tribunale accertò la fondatezza di entrambe le domande e dichairò compensati gli opposti crediti;

    che, proposto appello dalla sola T., la Corte d'appello di Venezia con la sentenza n. 417/2011 ha riformato la sentenza di primo grado solo riguardo alla pronuncia di compensazione, confermando l'accertamento del primo giudice e la reciproca condanna delle parti;

    che avverso tale sentenza T.G. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, rispettivamente riferiti a: violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3, per l'insussistenza nel caso di specie di un rapporto di lavoro subordinato dell'infortunato con la ditta Dimas di cui la T. era titolare, posto che si trattava di collaborazione interna ad impresa familiare; violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 11, derivante dall'insussistenza del rapporto di lavoro che è presupposto della responsabilità civile richiesta dall'azione di rivalsa; vizio di motivazione incidente sulla identificazione della normativa in concreto applicata alla fattispecie; violazione o falsa applicazione degli artt. 436,329 e 346 c.p.c., derivante dalla circostanza che la Corte territoriale aveva accolto la domanda di rivalsa proposta in riconvenzionale dall'I.n.a.i.l in assenza di...

  • Diritto

    CONSIDERATO IN DIRITTO

    Che i primi tre motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto fondati sul comune presupposto della inapplicabilità all'impresa familiare - ipotesi incontestamente ravvisata nel caso di specie - dei principi che regolano gli obblighi di prevenzione e sicurezza nel rapporto di lavoro subordinato, sono infondati;

    che, infatti, questa Corte di legittimità ha avuto modo di precisare che l'impresa familiare, introdotta nel codice civile, all'art. 230 bis, dalla L. n. 151 del 1979, art. 89, appartiene solo al suo titolare che assume la qualifica di imprenditore e con essa i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro (vd. Cass. 7223/2004; 9897/2003); che i familiari che partecipano all'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c., in quanto prestano opera manuale oppure opera assimilabile sono soggetti assicurati obbligatoriamente in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 476 del 10 dicembre 1987; che, dunque, a seguito di tale sentenza della Corte costituzionale, la tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è stata estesa anche ai familiari collaboratori nell'impresa familiare che prestano attività al di fuori di un reale rapporto subordinato o societario e, quindi, proprio in quanto tale erano esclusi dal novero del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 4;

    che, tuttavia, dalla peculiarità del rapporto giuridico in esame non deriva l'assenza di responsabilità del titolare dell'impresa familiare in caso di infortunio laddove si provi che lo stesso sia venuto meno agli obblighi di sicurezza previsti dalla normativa specifica di carattere precauzionale;

    che in tal senso, in particolare, si è espressa questa Corte di cassazione laddove ha enunciato il principio secondo cui (Cass. 4, 21 agosto 2007, n. 34995, Nacci; 8094/1994; 2261/1978), il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2, nel testo novellato dal D.Lgs. n. 262 del 1996, innovando rispetto alla...

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