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Estremi:
Cassazione civile, 2017,
  • Fatto

    FATTI DI CAUSA

    1. La Corte di Appello di Ancona, adita da S.C., ha riformato la sentenza del Tribunale di Macerata che aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento intimato all'appellante il 4 luglio 2009 dalla s.r.l. DMP Molly.

    2. La Corte territoriale ha premesso che nel corso del giudizio di primo grado la società era stata cancellata dal registro delle imprese e che l'appello era stato proposto nei confronti della stessa oltre che delle socie P.M. e P.D., quest'ultima citata in giudizio anche nella sua qualità di liquidatore. Ha ritenuto inammissibili gli appelli proposti nei confronti del soggetto ormai estinto e del liquidatore e ha rilevato, quanto a quest'ultimo, che la eventuale responsabilità derivata dalla violazione degli obblighi previsti dall'art. 2491 c.c., dà luogo non ad un fenomeno successorio, bensì a un'autonoma azione risarcitoria, che costituisce domanda nuova se proposta nel giudizio originariamente intentato nei confronti della società.

    3. In relazione alla posizione delle socie, la Corte territoriale ha richiamato ampi stralci della motivazione di Cass. Sez. U. n. 6070/2013 e ha evidenziato che la riscossione di somme residuate alla liquidazione non è condizione per il verificarsi della successione nel rapporto, che si determina in ogni caso, fermo restando, però, il diritto del socio di opporre come limite della sua responsabilità quanto ricevuto all'esito della fase liquidatoria, limite che può eventualmente incidere sul requisito dell'interesse ad agire, ma non su quello della legittimazione passiva.

    5. Quanto alla legittimità del recesso la Corte ha ritenuto non condivisibile la sentenza di primo grado, perchè il licenziamento era stato pacificamente intimato prima che fosse decorso un anno dal matrimonio della S. e il datore di lavoro non aveva provato la cessazione dell'attività, non essendo a tal fine sufficiente la...

  • Diritto

    RAGIONI DELLA DECISIONE

    1. Con il primo motivo le ricorrenti denunciano, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2462-2495 c.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti". Richiamano i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte per sostenere che, qualora sia in discussione la legittimità del licenziamento, anche le spese giudiziali costituiscono un'obbligazione connessa all'attività e all'iniziativa della società, per cui il socio ne può rispondere solo qualora abbia ricevuto somme all'esito della liquidazione. Aggiungono che la sentenza impugnata non ha chiarito quale fosse il comune interesse che giustificava la condanna alle spese, pronunciata sebbene la domanda di condanna proposta nei confronti delle socie fosse stata respinta. Deducono, infine, che la Corte avrebbe dovuto "semmai valutare ai fini della sussistenza del requisito dell'interesse ad agire, l'utilità per la ricorrente di far valere le proprie ragioni nei confronti delle socie a limitata responsabilità".

    2. Il secondo motivo, formulato in via subordinata, denuncia l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti nonchè la "violazione della L. n. 7 del 1963, art. 1, comma 3, ora D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 35, dell'art. 41 Cost.". Sostengono, in sintesi, le ricorrenti che il ramo di attività cui era addetta la S., ossia quello della preparazione del prodotto, era già cessato alla data di intimazione del licenziamento, in quanto erano venute meno tutte le commesse, sicchè la prosecuzione aveva interessato solo il controllo di qualità dei prodotti finiti e il settore amministrativo. La cessazione della attività produttiva era stata provata attraverso la produzione documentale e le dichiarazioni dei testi escussi, ma non era stata considerata dalla Corte territoriale, pur trattandosi di fatto decisivo...

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