1. La Suprema Corte conferma come illegittimo il licenziamento collettivo contestato da una dipendente per lacunosa indicazione delle modalità applicative dei criteri legali da parte del datore di lavoro. In particolare, quest'ultimo aveva adottato un'analitica griglia funzionale ad individuare il rispettivo peso ponderale dei tre concorrenti criteri di legge, attribuendo alle esigenze tecnico-produttive il 50% egualmente ripartito tra il livello posseduto e la professionalità. La valutazione di professionalità, a sua volta, risultava rimessa all'apprezzamento di cinque sottocriteri: competenza rispetto al livello; autonomia operativa e decisionale rispetto al livello; capacità relazionale e di lavoro in team; capacità di rispetto delle tempistiche assegnate; padronanza della lingua inglese. La comunicazione finale dei licenziamenti effettuati, inviata dal datore di lavoro all'esito della procedura di legge, indicava il complessivo punteggio assegnato alla valutazione di professionalità di ogni lavoratore preso in considerazione senza tuttavia specificare le modalità mediante cui si era pervenuti a quel punteggio. Di qui il vizio del licenziamento, giacché la carente trasparenza delle scelte datoriali rendeva non intellegibile l'applicazione dei cinque sottocriteri impiegati per valutare la professionalità e, di conseguenza, la concreta interazione dei criteri di legge nel loro insieme, con esiti vulneranti della funzione di controllo e valutazione spettante al sindacato.
2. La censura dell'operato datoriale non è tanto che fosse stato assegnato peso prevalente al criterio delle esigenze aziendali rispetto ai due criteri “sociali” (per tale possibile prevalenza nell'applicazione di criteri legali o contrattuali v. Cass. 9 agosto 2004, n. 15377, q. Riv., 2005, II, 476, nt. Sitzia; Cass. 3 febbraio 2000, n. 1201, GC, 2001, I, 3067, nt. ...
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